venerdì 7 dicembre 2012



Maurizio Pasquero, I Celti della Valle del Po negli eserciti di Roma (ausiliari, legionari, pretoriani dal II secolo a.C. al III secolo d.C.)

Presentazione di Venceslas Kruta
“Gli Archi”, Il Cerchio, Rimini, 2012

«Con i Galli si combatte per la propria salvezza, non per la gloria» sentenziava Sallustio. Nell'affermare ciò, lo storico romano traeva spunto da un evento accaduto – per lui che scriveva negli anni Quaranta del I secolo a.C. – una generazione prima: la cocente sconfitta subita nell’ottobre del 105 a.C., presso l'odierna Orange, in Provenza, dalle legioni romane a opera di Cimbri e Teutoni, entrambe, in verità, popolazioni di ceppo germanico. Tale lapsus la dice lunga sulla terribile nomea che i Celti, a un secolo e più dalla definitiva neutralizzazione di quelli “di casa”, i Galli cisalpini, ancora rivestivano nell’inconscio collettivo dei Romani.

Il possesso di una spada, tra i Celti, connotava l'uomo libero, fin dalla più giovane età addestrato al suo uso. Perdute per sempre armi e libertà, cosa accadde ai formidabili guerrieri che per due interi secoli, dalla battaglia dell'Allia a quella della Selva Litana, furono sempre una dolorosissima spina nel fianco per l’Urbe? Vennero decimati ed espulsi, come per lo più capitò agli indomabili Boi della Cispadana? O si risolsero, confinati nelle loro terre, a mutare le proprie spade in aratri come si tramanda per gli Insubri?

Le fonti classiche, unica testimonianza per quegli eventi insieme ai dati esigui dell'archeologia, sono scarne e vaghe, accennano qua e là a occasionali milizie galliche poste al seguito delle legioni combattenti: un onere preteso da Roma in ragione di trattati stipulati con ogni singolo teuta vinto o sottomessosi e ancora validi, attestava Cicerone, ai suoi tempi. Nei fatti, non molto si conosce di tali auxilia celti dai giorni della conquista della Transpadana fino allo scoppio della Guerra sociale e anche oltre: come un fiume carsico, essi appaiono e scompaiono. Netta è l’impressione che venissero deliberatamente sottoutilizzati dalle gerarchie militari repubblicane e tenuti ai margini dei maggiori eventi bellici. Salvo poi, con un'improvvisa epifania, manifestarsi in massa nelle “legioni vernacole” di Giulio Cesare alla vigilia della guerra di conquista delle Gallie.

Da quel momento, alle fonti storico-letterarie si sommano quelle epigrafiche, evidenze di individualità concrete, vite e morti vere, preziose memorie di pietra. E qui, in piena romanizzazione, cominciano le sorprese e riemergono le tracce celtiche. Se non sempre un nome 'alieno' è in sé e per sé un marker etnico, in situazioni in cui si vedono dei peregrini – i sans papiers di allora – far “carte false” per diventare cittadini dell'Urbe (con gli Anauni della Val di Non andò proprio così e l'imperatore Claudio dovette fare una “sanatoria”), certo appare singolare e in controtendenza la scelta di non pochi legionari nel perpetuare il proprio idionimo pre-romano come pseudogentilizio o cognome oppure, nelle filiazioni, riportare il patronimico gallico per esteso.

Il libro è dunque il rendiconto di un 'viaggio' alla ricerca di questi soldati dimenticati che combatterono per la Repubblica, per Cesare (con il quale ebbero un rapporto senz'altro privilegiato) e per l'Impero, non più celti ma nemmeno compiutamente romani. Frammenti delle loro vite emergono dalle testimonianze raccolte e rimandano talvolta ai grandiosi scenari nei quali essi furono quasi sempre comparse inconsapevoli, catapultati dai loro villaggi fino ai più lontani confini dell'Impero.

Mentre i modelli culturali ed economici dell'Urbe si diffondevano tra le comunità della pianura, dei grandi laghi, delle montagne della Cisalpina, un numero crescente di nativi si volse al mestiere delle armi. Più che per atavica passione o convinta adesione a una nuova palingenesi gallo-romana, confidando soprattutto in migliori esiti economici e sociali per le proprie vite. I risultati conseguiti, osservati attraverso le vicende personali che emergono dalle testimonianze, non mostrano di averli premiati in modo significativo. Pochissimi legionari di estrazione indigena riuscirono infatti ad andare al di là dei “primi ordini”, il centurionato, nelle proprie carriere. E meno ancora, congedati, ebbero modo di rivestire nella società civile ruoli amministrativi e istituzionali di qualche rilievo.

L'assoluta maggioranza dei legionari cisalpini che sopravvissero a 16, 20, 30 e più interminabili anni di ferma non accettarono di fermarsi là dove il loro servizio si concluse e scelsero di tornare a casa, sostanzialmente disillusi. Qui ritrovarono le vocazioni d'un tempo, gli antichi mestieri del contadino, dell’allevatore, dell’artigiano, riscoprendo tra gli orizzonti domestici, lontani dalla babele del limes, i suoni ancestrali del mondo degli avi, impossibili da sradicare. Altri ancora, mettendo a frutto le esperienze fatte nei più lontani Paesi, si volsero ai traffici e ai commerci, rendendo più prospera la propria Terra e lasciando infine ai Provinciali, senza rimpianti, l’onere di presidiare dei confini divenuti, nel frattempo, sempre più fragili e sempre più difficili da difendere.